martedì 3 novembre 2015

DON STABILE: FINALMENTE LA RIBELLIONE ANTIRACKET ARRIVA A BAGHERIA

Don Francesco Michele Stabile
Trentasei tra imprenditori e commercianti con le loro dichiarazioni contribuiscono a una retata antiracket con 22 ordini di custodia. Si sgretola il muro dell'omertà. Succede a Bagheria, alle porte di Palermo, una realtà storicamente segnata dal dominio delle cosche che si passavano in "staffetta" le vittime del pizzo. Ecco una intervista a don Francesco Michele Stabile, parroco in una zona periferica di Bagheria, storico della Chiesa e coordinatore della commissione diocesana che istruì la causa di beatificazione di don Giuseppe Puglisi.

«La gente ha finalmente capito da che parte stare e poi la mafia locale fa meno paura di prima». Don Francesco Michele Stabile, parroco di San Giovanni Bosco a Bagheria, mostra la compiaciuta soddisfazione di chi da oltre trent’anni si batte per il cambiamento e ora comincia a vedere le prime luci accendersi e brillare. Sacerdote nella trincea sociale di Bagheria, storico della Chiesa, don Stabile conosce di cosa è capace la violenza mafiosa, in un territorio che era conosciuto, assieme a Casteldaccia e Altavilla, come il triangolo della morte.

Decine di imprenditori e commercianti finalmente hanno il coraggio di denunciare le estorsioni. Cosa è cambiato?
«C’è una maggiore presa di coscienza, più fiducia nell’intervento dello Stato. E poi la consapevolezza che pagare il pizzo può significare chiudere. Questo vuole dire che il lavoro di sensibilizzazione, di lotta per l’affermazione della legalità fatto in tanti anni non è stato inutile. Non si tratta più di una o due denunce, la ribellione è corale. Anche perché ci si rende conto che la mafia locale non è più forte come prima, uccide solo per regolare conti interni».
Nel febbraio scorso il Centro studi Pio La Torre, le scuole, le parrocchie, le associazioni, i comuni hanno partecipato alla marcia Bagheria-Casteldaccia a trent’anni dalla sanguinosa guerra di mafia. Che valore hanno iniziative come queste?
«Abbiamo riproposto la marcia nei luoghi della morte, ma anche avviato varie iniziative di sostegno ai commercianti, all’imprenditore-coraggio Gianluca Calì di Altavilla Milicia, perché non siano soli in questo processo di cambiamento».
Ma c’è anche chi approfitta dell’etichetta antimafia per fini meno nobili. Possiamo parlare di una crisi dell’antimafia?
«Purtroppo c’è sempre chi strumentalizza anche i processi positivi, ma screditare tutta l'antimafia è sbagliato, è un’ingiustizia. C'è gente che si impegna con grande serietà, anche mettendo a rischio la propria vita. Bisogna denunciare queste derive, chi approfitta di queste iniziative per sfruttare la “patente antimafia”. Ma questo lo dicevamo anche dopo il 1982, quando organizzavamo gli anniversari dell’omicidio Dalla Chiesa e qualcuno si intruppava per trarre vantaggi. Bisogna vigiliare in chi cerca di fare affari. Dove ci sono soldi è lì che bisogna stare attenti, lì i controlli devono essere molto forti ed evidentemente non lo sono stati. Ma nell'associazionismo non girano soldi.»
Qual è il ruolo della Chiesa?
«Noi l’abbiamo fatto per motivi di fede, perché questo è un problema della Chiesa, liberare questa terra dalla mafia fa parte dell'impegno di preti».
Nei giovani del suo quartiere quale percezione c’è del problema mafia?
«Io parlo sempre di questo coi ragazzi e anche molto esplicitamente, ma nel nostro quartiere non ci sono mafiosi, ci sono ladruncoli, piccola malavita. Qui c'è il problema di come campare, la gente vive di espedienti».
Cosa serve adesso per liberarsi dal giogo mafioso?
«Il passaggio adesso è fare la lotta alla mafia nelle istituzioni. Troppo spesso coloro che dovrebbero garantire la legalità e la trasparenza, invece non lo fanno»
Alessandra Turrisi
Giornale di Sicilia 3 novembre 2015

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