giovedì 21 settembre 2023

Don Scordato: Puglisi ucciso dai mafiosi perché costruiva un mondo altro. Ecco cosa faceva

 

Da sinistra Giuseppe Castronovo della libreria Tantestorie, don Cosimo Scordato e il giornalista Francesco Deliziosi

"Di don Pino Puglisi possiamo dire che lui era ciò che diceva e ciò che diceva era quello che faceva. Voleva costruire un altro mondo, anzi un mondo altro. Per questo la mafia ha avuto paura e lo ha ucciso": queste le riflessioni di don Cosimo Scordato alla libreria Tantestorie di Palermo il 14 settembre scorso presentando i due libri di Francesco Deliziosi "Pino Puglisi – il prete che fece tremare la mafia con un sorriso" e "Se ognuno fa qualcosa si può fare molto" pubblicati da Rizzoli. Ecco la trascrizione del suo intervento.


Don Cosimo Scordato

Come prima cosa, vorrei dire che sarebbe piaciuta a don Pino una presentazione così, all'aperto, in strada, senza tante formalità. Era proprio il suo stile, amava la semplicità e la sobrietà.

Ho letto questi due libri di Francesco Deliziosi in più riprese e mi sono piaciuti. Che tipo di libri sono? Sono un dono che l'autore condivide con noi. Francesco si è dedicato alla stesura per un legame particolare con don Pino, lo ha conosciuto molto da vicino e si è sentito quasi obbligato a farlo per sdebitarsi dopo la sua morte.

Sono due volumi con titoli e sottotitoli. E nei sottotitoli c'è la chiave della ricerca. Il genere è biografico ma non si tratta di libri agiografici, hanno un obiettivo storico, si vuole ricostruire la vita di don Pino e il periodo che ha attraversato. Non si usa un metodo deduttivo ma induttivo: si raccontano le vicende biografiche del sacerdote dalla nascita in una famiglia modesta, agli studi giovanili e alle varie esperienze della sua esistenza. Ma si fanno parlare i fatti, le sue scelte, non si deducono osservazioni dall'alto di una posizione precostituita.

Dal punto di vista epistemologico ciò è importante perché è un tipo di conoscenza molto raffinata che si va costruendo a poco a poco, facendo parlare appunto i fatti. Nei due libri padre Puglisi viene restituito a padre Puglisi, non viene mistificato, così ce lo possiamo tenere vicino, non si allontana da noi, non viene messo su un altarino. C'è invece il don Pino della vita quotidiana, della strada, con tutta la sua sensibilità. Come nella nouvelle histoire francese si fa storia partendo da un singolo fatto, da un singolo quartiere e si ricostruisce però da quello la storia di tutta la città, della Sicilia.

Perché ci sono due volumi? Sono due libri che si integrano a vicenda e vanno letti insieme. Il primo è la biografia vera e propria di don Pino, il secondo volume raccoglie gli scritti.



Nel primo c'è tutta la sua vicenda umana, gli incarichi, la sua storia personale. E anche come si arriva al riconoscimento del martirio, si ricostruisce la Causa di beatificazione in tutti i particolari.



Il secondo volume raccoglie invece le sue parole, quello che ci ha lasciato. Ed è come se lui ci parlasse ancora. Non è infatti un'antologia di testi ma una ricostruzione completa del suo pensiero. Dagli interventi nei campi scuola alle relazioni del periodo di Brancaccio dove per esempio si pose l'esigenza di conoscere il quartiere attraverso un'analisi sociologica del territorio.

C'è il tema dell'educazione dei giovani, della ricerca di libertà e del senso della vita, temi che erano propri di padre Puglisi. I due libri così si completano a vicenda, consiglio di leggerli entrambi per avere una visione globale della sua figura. Il modo migliore di intendere la sua vita è completare la conoscenza con i suoi scritti.

In sostanza di don Pino possiamo dire che lui era ciò che diceva e ciò che diceva era quello che faceva. Non sempre si verifica questo. Tante volte le parole e i fatti in una persona non vanno a braccetto.

Nel sottotitolo della biografia si legge "il prete che fece tremare la mafia con un sorriso". Francesco due giorni fa alla Lumsa, nell'ambito di un convegno dedicato a padre Puglisi e c'ero pure io, ha dedicato il suo bellissimo intervento proprio al sorriso di don Pino. Con un sorriso ha salutato i suoi assassini e quel sorriso ha provocato in loro una conversione che viene giudicata da molti credibile.



Il sorriso è una risorsa di cui tutti disponiamo, una grande risorsa. Esprime la nostra capacità di autotrascendimento. Ci fa guardare oltre quello che accade. Oltre all'esperienza del male che tante volte incontriamo nella vita. Il trascendimento col sorriso è importante: riusciamo ad andare oltre, a una alterità, in un altro mondo rispetto a quello inquinato e violento e aggressivo di cui purtroppo abbiamo esperienza ogni giorno. Col sorriso il nostro sguardo va altrove.

Ai suoi assassini don Pino dice "Me l'aspettavo": lo sapeva di rischiare la vita, l'aveva messo in conto. Io l'ho incontrato l'ultima volta il venerdì precedente al delitto. Non era indifferente alle minacce di morte ricevute, ma aveva lo sguardo altrove, credeva in Dio e sapeva che Dio era la sua forza, non temeva di soccombere perché il suo era il sorriso del trascendimento della realtà.

Il sorriso è anche tipico della Pasqua, è il "risus paschalis". Se Gesù è risorto bisogna essere pronti al sorriso, in chiesa la liturgia si anima a Pasqua di questa leggerezza nonostante la pesantezza del male. Nel sorriso di don Pino c'è l'esperienza pasquale del "risus paschalis". Non si fece travolgere dal male ma si affidò a Dio in un abbandono totale. A me sta benissimo quindi il sottotitolo del libro di Francesco. Il sorriso è lo strumento giusto per interpretare le vicende di don Pino e anche la Causa di beatificazione, come si è potuti approdare al riconoscimento del martirio.

Il secondo volume ha come sottotitolo: "Le parole del prete che fece paura alla mafia". In questo secondo caso l'obiettivo di Francesco è far sì che leggiamo il libro come se lui ci parlasse ancora.

I mafiosi sono vigliacchi, colpiscono alle spalle. Lui li aveva invece invitati a parlare. In una delle sue omelie più famose e riportate nel volume, dall'altare aveva detto ai mafiosi: "Cosa sto facendo di male? Io penso solo ai vostri bambini, a farli studiare. E allora vediamoci, incontriamoci, parliamone...". 

E veniamo anche alla frase che dà il titolo a questo secondo libro, "Se ognuno fa qualcosa, si può fare molto". Secondo me, rischia di essere banalizzata se si intende solo nella maniera più ovvia. Si può interpretare come un invito a fare qualcosa, a non subire soltanto, a fare almeno un tentativo, anche se poi non riusciamo a centrare l'obiettivo. Non è una brutta interpretazione, la possiamo condividere ma dobbiamo andare oltre la lettera.



Don Pino credo che intendesse altro, un significato ulteriore. Qui scatta il compito della comunità. Don Pino dice in sostanza: ognuno faccia quel che può fare, faccia la sua parte. Ragioniamo: in una comunità come Ballarò o Brancaccio a chi spetta fare qualcosa? A tutti. E se la soggettualità si scioglie nel concetto del "noi tutti", allora scopriamo che la comunità è la forza più grande di tutti...più delle forze dell'ordine!

Se ognuno nella comunità fa quel che spetta a lui, copriamo tutto lo spazio. Se ognuno di noi fa la sua parte, cambia tutto. Se invece diciamo "non spetta a me", le responsabilità sono di altri. Si delega la responsabilità. Un esempio? Tenere pulita la strada è responsabilità dei netturbini. Ma non solo. C'è chi pulisce ma ognuno di noi ha la responsabilità di non sporcare.

E andiamo oltre. Espropriare il territorio dalla presenza della comunità, dalla responsabilità di ciascuno è il modo migliore di dare potere alla mafia, di affidare il territorio alla mafia. Se invece una comunità scende in campo, ognuno con la sua responsabilità, la mafia viene tagliata fuori. Secondo me questo è il senso più profondo di ciò che diceva e faceva don Pino. E si applica in tanti campi, dal lavoro alla scuola. 

Lui vuole realizzare tutto questo attraverso la sua parrocchia di San Gaetano. La parrocchia spesso è vista solo come una stazione di servizio. Si va, si riceve un certificato, si prega, si torna a casa, non si sa neanche chi c'è stato accanto. La prima comunione spesso rischia di essere anche l'ultima per tanti ragazzi. Non è questa l'idea della comunità che dobbiamo creare, che voleva creare don Pino. Lui diceva: ci sono tanti problemi, ma uniamoci, aiutiamoci, insieme possiamo affrontarli meglio e magari risolverne qualcuno. Come quello della mancanza della scuola media.

Aveva messo in movimento un processo di unificazione comunitaria. Mettendo in crisi coloro che portavano avanti un altro progetto, quello della mafia e della violenza. E infatti Totò Riina, intercettato in carcere, confidava a un suo interlocutore a proposito di don Pino: "Ma stu parrinu tutto vuole fare lui, vuole comandare lui su tutto il quartiere, ma fatti u parrinu, fatti i fatti tuoi...".

In realtà padre Puglisi non aveva velleità di comandare. Lui invece aveva solo il desiderio di formare una comunità a Brancaccio che potesse essere d'aiuto per tutti. Non era una concorrenza voluta contro i mafiosi, ma un'alternativa di valori con l'opportunità di crescere per adulti e bambini e avere le condizioni di vivere finalmente in libertà. Ma i mafiosi si impauriscono, temono di perdere questo dominio sul territorio ottenuto con la violenza, col potere dei soldi e la deresponsabilizzazione della comunità. Per questo lo uccidono.

In conclusione i due volumi di Francesco si integrano, vanno letti insieme per capire chi era davvero don Pino e cosa voleva fare.

Voleva creare un altro mondo, anzi un mondo altro rispetto all'impostazione mafiosa che regnava sovrana.



E, come prospettiva per il futuro, c'è una bella sintesi degli stimoli che ci vengono da lui, anche trent'anni dopo la sua morte, in una pagina di Francesco, tratta dal libro "Se ognuno fa qualcosa si può fare molto" che leggiamo:

"Don Pino proponeva un’alternativa di fede e di legalità. Metteva quotidianamente in pratica uno stile che ora deve diventare un modello: la povertà personale per essere credibile e non solo credente (di chi non teme di portare ai piedi scarpe bucate);

la preghiera e le Missioni Popolari tra la gente (per annunciare Gesù casa per casa);

la formazione dei volontari (per un vero servizio disinteressato);

l’analisi anche scientifica dei bisogni del territorio (grazie all’apporto di esperti professionali); la trasparenza dei conti della parrocchia (quanti rischi da evitare, legati all’amministrazione dei soldi in chiesa!);

la moralizzazione delle feste popolari (non si possono ammettere sprechi di denaro per cantanti e fuochi d’artificio);

il controllo delle confraternite e dei percorsi delle processioni (basta con gli inchini sotto certi balconi);

la corresponsabilità e il coinvolgimento dei laici nella parrocchia (abbandonando il clericalismo);

l’essere coscienza critica delle autorità civili dormienti o colluse (evitando ogni forma di collateralismo con i partiti).

Ecco, le abbiamo messe in fila queste ultime quindici righe: sono le vere sfide per la Chiesa se vorrà incarnare sul serio la lezione di padre Puglisi e trasformare le sue ferite nelle stimmate della resurrezione, senza dimenticare il Vangelo sotto il braccio e il sorriso sulle labbra."


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