giovedì 6 maggio 2021

Livatino martire: odiato dalla mafia anche per la sua fede

 


di Francesco Deliziosi

Rosario Livatino è il primo magistrato a essere proclamato Beato e la seconda vittima della mafia, dopo don Pino Puglisi, a diventare un martire della cattolicità. Bastano queste due indicazioni perchè anche i più distratti lettori percepiscano che un pezzo di storia ci sta passando sotto gli occhi. Quale è il significato della beatificazione di domenica 9 maggio ad Agrigento? Come si è arrivati a questa decisione? E' la forzatura di una Chiesa che va in cerca dei propri eroi antimafia o si inserisce in un percorso più ampio di maturazione ecclesiale di cui anche gli osservatori laici dovranno tenere conto?


La nostra riflessione può iniziare da Vincenzo Livatino e dalla moglie Rosalia Corbo, genitori del magistrato e protagonisti di un incontro riservato con Giovanni Paolo II in visita ad Agrigento. Era il 9 maggio (questo il motivo della data scelta per la beatificazione) del 1993. E' la madre di Livatino, mentre il Papa le tiene le mani, a raccontare di quel figlio falciato via dalla mafia come un fiore. Karol Wojtyla incontra anche i familiari dell'altro giudice ucciso nell'Agrigentino, Antonino Saetta. E subito dopo pronuncia il famoso anatema contro i mafiosi nella Valle dei Templi, totalmente fuori programma. Secondo il Pontefice, Livatino è già "un martire della giustizia e indirettamente della fede".

Per l'uccisione del magistrato sono stati celebrati tre diversi processi, arrivati a sentenza definitiva, contro esecutori e mandanti. La Stidda, l'organizzazione criminale che stava cercando di prendere il posto della vecchia mafia agrigentina, si è sfaldata e i particolari dell'agguato sono stati raccontati da diversi componenti diventati poi collaboratori di giustizia.

Livatino era un "picciotto" siciliano dal viso pulito. E questa parola rivolge ai suoi quattro killer il magistrato mentre, sceso dalla sua Ford Fiesta amaranto già crivellata, cerca di fuggire nei campi accanto alla statale che da Canicattì porta ad Agrigento: "Picciotti, che vi ho fatto?". Con ferocia gli assassini si accaniscono su di lui e l'ultimo colpo, è il settimo, gli devasta il volto. Particolarità nella storia dei delitti di mafia, un supertestimone – Pietro Ivano Nava – racconta subito alla polizia quanto ha visto e la sua descrizione è fondamentale per indirizzare le indagini verso gli esecutori dell'omicidio.

Subito dopo il delitto, l'allora arcivescovo Carmelo Ferraro incarica Ida Abate, professoressa di Livatino, di raccogliere le prime testimonianze sul magistrato. La causa viene poi aperta ufficialmente dal cardinale Francesco Montenegro il 21 settembre 2011 con postulatore don Giuseppe Livatino che vi ha lavorato con grande passione, raccogliendo circa 4 mila pagine di atti. Tra i testimoni anche Gaetano Puzzangaro, uno degli esecutori.

Chiusa la prima fase diocesana nel settembre 2018, la Congregazione vaticana per le Cause dei Santi ha autorizzato una seconda inchiesta suppletiva "super martyrio" nel novembre 2019. Questa ultima fase è stata affidata a mons. Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro (originario di San Biagio Platani nell'Agrigentino). E' lo stesso Postulatore che ha concluso positivamente nel 2013 l'iter per don Pino Puglisi, dopo che il processo si era arenato per anni.



La Diocesi di Agrigento, promotrice della Causa, con una scelta significativa e se vogliamo anche coraggiosa, ha voluto percorrere la strada verso la proclamazione del martirio di Livatino "in odium fidei" mentre era possibile anche chiedere la beatificazione per l'esistenza di una guarigione inspiegabile (è il secondo binario ammesso dalle norme della Chiesa, si tratta di una donna guarita da un linfoma di Hodgkin). Gli sforzi della nuova Postulazione si sono rivolti quindi ad approfondire quello che Leonardo Sciascia avrebbe definito "il contesto" e alla dimostrazione dell'odio per la fede di Livatino da parte dei suoi assassini.

Alcuni punti fermi erano già certi. Che il magistrato fosse un credente non era un mistero per nessuno: andava a messa ogni domenica con i suoi genitori, ogni mattina prima di entrare in tribunale si raccoglieva in preghiera in una chiesa. Pochi giorni prima dell'agguato si era confessato. A 36 anni aveva voluto ricevere la cresima, frequentando il corso normalmente seduto tra gli adolescenti. Uno degli episodi più noti riguarda le sue agendine. Per lungo tempo ci si è scervellati sulle tre lettere che si trovavano nella prima pagina: STD. Per poi scoprire che è l'abbreviazione dell'antica formula latina "sub tutela dei". Livatino poneva tutto il suo lavoro e se stesso sotto la difesa (o, in una traduzione migliore, lo sguardo) di Dio.

E' stata poi dimostrata la sua consapevolezza del rischio della vita: aveva rinunciato alla scorta per non mettere a rischio la vita di altri. E a un amico ebbe a dire "di non volersi fare una famiglia per non lasciare una giovane vedova e figli orfani". La sua frase più famosa ci pone poi davanti al momento del giudizio, nella prospettiva di un cristianesimo non bigotto né bacchettone: "Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili".

Attraverso i testi delle sue due conferenze e altre testimonianze appare chiaro che pure la sua attività di magistrato veniva illuminata dalla fede. C'è in Livatino sempre il rispetto della persona e dei suoi diritti, foss'anche il criminale più incallito. C'è la fedeltà assoluta alle garanzie e non manca l'attenzione a ogni proprio comportamento perché il giudice "non solo deve essere neutrale ma deve anche apparirlo".

Pure Papa Francesco ha colto questo aspetto, che si colloca nel solco di una grande tradizione di giuristi cattolici come Giuseppe Capograssi o Arturo Carlo Jemolo: "Livatino è un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l’attualità delle sue riflessioni" (29 Novembre 2019).



Eppure, se Livatino fosse stato ucciso per un singolo sgarro, per il timore solo di un danno economico da parte della Stidda preoccupata dal sequestro di beni, non ci sarebbe stata la proclamazione del martirio. Occorreva quindi approfondire la Causa "ex partibus persecutoris", cioè chiarire il movente più alto del delitto. Come per la Causa di don Pino Puglisi, sono stati valorizzati alcuni atti giudiziari dei processi di mafia, il numero totale dei testimoni è salito a 59 ed è stato anche sentito uno dei quattro mandanti dell'agguato. Tutti questi elementi e in particolare la nuova testimonianza sono stati uniti in un rigoroso filo logico. E' emerso con chiarezza come Stidda e mafia fossero pienamente consapevoli di chi era Livatino e della fede che gli dava la forza per il suo impegno. Negli ambienti criminali il magistrato veniva definito "il santocchio", "u parrineddu" e insultato per questo come "lo scimunito". Uno dei boss dell'epoca abitava nel suo stesso palazzo e lo vedeva andare a messa. Gli stiddari in un primo momento avevano pensato di far scattare l'agguato proprio davanti alla chiesa dove andava a pregare ogni giorno.

C'è in questi episodi una derisione rabbiosa che in realtà rivela l'odium fidei. Il magistrato è da eliminare perché santo, perché la fede lo rafforza e lo rende un ostacolo insormontabile. Gli stiddari decisero di assassinarlo perché consapevoli che si trattava di un giudice integerrimo. Non solo: andava a messa, non nascondeva la sua fede e per questo non era possibile "avvicinarlo" o "ammorbidirlo" con i soldi né tantomeno fargli paura con le minacce. Si verifica quindi la contrapposizione nei fatti di due realtà: da un lato la sopraffazione, la violenza, il disprezzo del debole, l'arroganza e l'odio della mafia, di cui è ormai acclarata l'essenza anti-cristiana e incompatibile con il Vangelo. Dall'altra, il cristiano che alimenta la propria fede nel Vangelo e applica giorno per giorno il metro della carità e della giustizia. E' il giusto che ha la coscienza a posto e si stupisce di essere perseguitato: "Picciotti, che vi ho fatto?".

Osserva il Postulatore monsignor Bertolone: "A quel picciotto Livatino, che chiama picciotti i suoi killer armati manu militari, bisognava dare una grande ed eclatante lezione affinché altri picciotti non fossero irretiti nelle maglie del bene, dell'equità, della preparazione professionale, della produttività di cui Livatino era l'esempio concreto: a un santocchio, come lo chiama dispregiativamente un esponente di Cosa nostra, non bisogna dare ulteriore spazio. Le Stidde di ben due Centri agrigentini, non senza il "lasciapassare" di Cosa nostra, seppur talvolta divisi da guerre fratricide, convergono nel "consegnare" alla morte una vita testimoniale: consummatum est, come disse la madre di Rosario, in analogia con la vicenda sacrificale di Gesù Cristo".

Questo in estrema sintesi il percorso che ha portato alla conclusione positiva della causa e alla beatificazione. Ma c'è un'ultima riflessione: attraverso la proclamazione del martirio prima di don Pino Puglisi e ora di Rosario Livatino la Chiesa attesta quindi che se si uccide un cristiano che applica la carità e la giustizia non solo si infrange il comandamento di non uccidere ma si agisce contro tutto ciò che è il Vangelo di Cristo, e la fede in lui. Non solo un sacerdote può quindi essere Beato e martire, ma anche il magistrato, il politico, l'imprenditore, il poliziotto, che nell'umile e quotidiano servizio al proprio lavoro trova la forza nella fede di resistere alla corruzione, alla violenza, alle intimidazioni della mafia o del potere tout court. Fino al sacrificio della vita.

Ecco colmato allora quel divario che - tra gli osservatori laici - ha suscitato più di una diffidenza per la beatificazione di Livatino. In realtà non c'è nessuna forzatura da parte della Chiesa ma anzi un'apertura teologica di grande prospettiva. Basta guardare al lungo elenco delle vittime per capire cosa potrebbe riservarci il futuro. Si intravedono i martiri della giustizia (e dell'Amore) di cui ha profetizzato Giovanni Paolo II. E si intuisce quanta strada ha percorso la Chiesa stessa nel suo cammino di crescita - con strumenti propri – e nella valutazione del pericolo della mafia. Facendo piazza pulita dei silenzi e delle sottovalutazioni del passato. Grazie anche al sangue di don Puglisi e Rosario Livatino.

Giornale di Sicilia 5 maggio 2021


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Per approfondire la figura del magistrato:




Quando fu ucciso, il 21 settembre del 1990, Rosario Livatino piombò sulla scena nazionale da perfetto sconosciuto: non aveva mai concesso una intervista, non parlava con i giornalisti, aveva rifiutato la scorta, non faceva parte di correnti, né era avvezzo ai convegni (ci restano solo i testi di due sue conferenze, pubblicate postume: "Il ruolo del giudice nella società che cambia" e "Fede e diritto"). In uno degli scritti sottolineava: il magistrato che sceglie la carriera politica non dovrebbe più tornare indietro.

Colpì tutta l'Italia la giovanissima età: avrebbe compiuto 38 anni il 3 ottobre successivo all'agguato. Circa otto mesi dopo l'omicidio (10 maggio 1991) fu il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga a parlare in senso spregiativo di "giudici ragazzini", magistrati neofiti e inaffidabili nella lotta contro la mafia. Questo appellativo venne scelto da Nando Dalla Chiesa per il suo libro del '92 su Livatino da cui è stato poi tratto il film omonimo del '94 con Giulio Scarpati. Da queste due opere nacque nella memoria collettiva l'abbinamento tra la definizione e il magistrato ucciso. Ma c'è da dire che Cossiga smentì sempre di volersi riferire a Livatino con la sua espressione, scrivendo anche una accorata lettera ai genitori del giudice, Vincenzo e Rosalia Corbo. Il suo riferimento – spiegò - era ad alcuni giovani magistrati del Tribunale di Gela e a una polemica dell'epoca con il Csm che li aveva nominati appena terminato l'uditorato.

Quanto alla sostanza dell'accusa, tutte le ricerche di questi 30 anni (va ricordata per il suo impegno l'Associazione degli amici del giudice e una citazione merita anche il bel film "Luce verticale" diretto da Salvo Presti) mostrano un magistrato preparato, colto, estremamente consapevole, tutt'altro che preda di ardori giovanili o voglia di protagonismo. Gia' da bambino Rosario era conosciuto col nomignolo di "centouno" perché era saggio come un anziano. Laureato poi col massimo dei voti e superato brillantemente il concorso, Livatino fu il magistrato più produttivo in Procura nel quinquennio 1984-1988, come attesta il Csm: 3020 istruttorie; 28 rogatorie; 2.890 requisitorie; 727 richieste di citazione a giudizio; 172 impugnazioni; 71 udienze civili, 248 penali. Dal 29 settembre '79 al 20 agosto '89, come sostituto procuratore della Repubblica, si occupò delle più delicate indagini antimafia, ma anche di quella che poi negli anni '90 sarebbe scoppiata come la "Tangentopoli siciliana", l'intreccio perverso tra politica e imprenditoria. Dal 21 agosto '89 aveva poi prestato servizio al Tribunale di Agrigento quale giudice a latere e della speciale sezione misure di prevenzione dove tra i primi si trovò a utilizzare l'arma dei sequestri dei beni contro mafia e Stidda. Ma sempre con provvedimenti fondati in modo ineccepibile. Dell'attività del giudice d'altronde ebbe a scrivere: “Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata”. 

Francesco Deliziosi - Giornale di Sicilia 5 maggio 2021

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