giovedì 17 settembre 2015

BERTOLONE: PADRE PINO PUGLISI? NON RENDIAMO INUTILE LA MORTE DI UN PROFETA

La folla alla cerimonia di beatificazione: 25 maggio 2015

In un articolo pubblicato sull'Osservatore Romano, mons. Vincenzo Bertolone mette in guardia da un rischio ben preciso in questi giorni di commemorazioni per l'anniversario dell'uccisione di padre Pino Puglisi: ridurre il suo insegnamento alla quiete e all'umiltà, spegnendo la sua voce di profeta che si ricollega alla tradizione purissima della fede e del coraggio dei martiri dei primi secoli del Cristianesimo. Ma anche a un'altra grande figura: mons. Oscar Romero.


di Vincenzo Bertolone

postulatore della causa di beatificazione e arcivescovo di Catanzaro

A dodici mesi dalla morte di don Pino Puglisi fu pubblicata da un prete siciliano una lettera alquanto rammaricata: «Cosa resta di te e del tuo operato dopo un anno? È certo che Brancaccio è passata da territorio emarginato ad area geografica al centro dell’attenzione», ma «si sta impostando (o si è già impostato) un lavoro diverso da quello che avevi iniziato tu. Forse ai quattro famosi peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio ci sarebbe da aggiungere un quinto: rendere inutile la morte dei profeti». Parole dure, utili anche oggi per evitare che si affievolisca l’esperienza profetica del martire siciliano, magari riducendola solo nelle nicchie certamente importanti del sorriso, della quiete, dell’umiltà, con il risultato, però, di attutirla o addirittura tacitarla.

Il 15 settembre 1993, la mafia di Brancaccio, armando la mano del sicario, tolse di mezzo il parroco Puglisi non perché quel prete ce l’avesse con lei e con i suoi capi, bensì perché nell’ordinarietà di una pastorale, che il cardinale Pappalardo definì «moderna», aveva toccato i tasti giusti per far vacillare prima, mettere in crisi poi, la locale cupola, i suoi affiliati e tutta la pletora delle connivenze ai vari livelli sociali, economici e politici. Osservava in proposito il compianto monsignor Cataldo Naro che Puglisi non era un prete distintosi «per proclamazioni d’antimafia», né che godesse, per questi motivi, «di particolare notorietà sui mezzi di comunicazione», però si distingueva perché «svolgeva con serietà e coerenza il suo ministero. Non è stato ucciso uno che cercava di mettersi in mostra», ma uno che «faceva il proprio dovere e concepiva la missione evangelica secondo principi moderni».
Non è forse questo il modo di parlare “profetico” di una Chiesa che intende svolgere l’attività pastorale anche come promozione civile e sociale, capace di dire no al peccato grave di mafia, ma di sperare fino all’ultimo nella conversione del peccatore, anche se “scomunicato” come il mafioso? Già, si tratta appunto di comprendere il “linguaggio della profezia” di “3P” — così lo chiamavano gli amici — come suggeriva nel 2003 Mario Luzi nel suo testo teatrale Il fiore del dolore. “Martire di mafia”, ma ancor più é un “martire della fede”, don Pino. Uno che sa leggere evangelicamente i fatti e sa annunciare profeticamente la verità, sa proporre qualcosa di utile all’umanità presagendo che l’annuncio cristiano, oltre a essere una ricetta divino-umana infallibile per rigenerare un ambiente umano e sociale, può anche suscitare invidie e avviare persecuzioni da parte dei seminatori di zizzania.

I poteri che armarono la mano a Grigoli come pure al milite (il 24 marzo 1980 ) degli “squadroni della morte” per eliminare rispettivamente don Puglisi e l’arcivescovo Romero, solo per citare due casi, rei di avere detto e testimoniato la verità, avevano fatto proprio un concetto antico come il mondo: togliere di mezzo “i disturbatori”, secondo quel detto latino, unum castigabis, centum emendabis, tristemente famoso perché fatto proprio anche dalle Brigate rosse: colpirne uno per educarne cento. «Annunciare la verità é una ricetta infallibile per essere eliminati», sosteneva Voltaire. Con un colpo solo, in tempi diversi, si sbarazzarono di due uomini per molti scomodi, privando il mondo di pastori il cui ministero educava alla libertà.
Don Pino Puglisi, in particolare, è un profeta martire per l’odio nutrito dagli operatori di male nei confronti del suo ministero e della sua volontà di essere fedele al Vangelo. Alla fine del II secolo, il giovane Origene assistette al martirio di suo padre, Leonida, per ordine di Settimio Severo. In seguito, anche per quella terribile esperienza, compose l’Esortazione al martirio. Come Tertulliano nel mondo latino, così Origene in quello ellenico aveva verificato personalmente il peso della minaccia del martirio per chi è fedele discepolo di Cristo. 
Pur sollecitando l’ambiente pagano ad assumere un atteggiamento più tollerante verso i cristiani, Origene — che sarà molto utilizzato negli ambienti monastici successivi per la sua peculiare ascesi cristiana — era conscio della sfida cruciale dell’eventualità dell’esperienza del martirio, per cui occorreva assolutamente sostenere l’impegno dei cristiani nel momento della prova suprema. L’intensità biblica con cui egli rilegge il martirio è la prova di come si stesse allora trasformando la filosofia — intesa come condotta di vita, che si articola entro una scelta o opzione esistenziale — in una vera e propria “filosofia di Mosè”, ovvero nella pratica sapiente delle Scritture in vista del progresso spirituale della singola persona e della trasformazione del mondo intero. La nuova etica cristiana è il primo passo verso la vita vera, in quanto detta l’ascesi cui conformarsi, anche a rischio del martirio. Nel Discorso indirizzatogli da un allievo, nel momento in cui si congedava dalla scuola di Cesarea, vien detto di Origene: «(Egli) voleva, dunque, renderci indifferenti ai dolori, impassibili ai mali di ogni sorta, disciplinati, equilibrati, simili alla divinità, beati».
Puglisi non ha scritto libri di esortazione al martirio, eppure la sua esistenza, umanamente e cristianamente riuscita, vale almeno quanto un percorso educativo disciplinato, equilibrato, beato, felice. È un concreto modello di profezia cristiana e di santità. L’ordinarietà della sua vita martiriale, infatti, sa suscitare nei giovani il coraggio di contrastare il malaffare in nome della verità cristiana e sa pure far intravvedere, mediante l’esperienza di un sorriso, al più gregario e seriale dei sicari, la possibilità della mano tenera di Dio, padre e madre. Come ha scritto Papa Francesco riferendosi ai carcerati in vista del giubileo, esistono «tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell’ingiustizia compiuta e desiderano sinceramente inserirsi di nuovo nella società portando il loro contributo onesto. A tutti costoro giunga concretamente la misericordia del Padre che vuole stare vicino a chi ha più bisogno del suo perdono».
Il volto misericordioso del Padre è anche il volto dei martiri della fede, che, come Abele, consentono al volto di Dio di farsi presente nel Verbo incarnato, il cui sangue feconda nella terra arida e arsa dai crimini, proprio come osservava Papa Pio XII, nel novembre 1946, rivolgendosi ai pellegrini accorsi per la beatificazione di 29 martiri cinesi: «Unito al sangue di Cristo, il sangue dei martiri grida verso il cielo più altamente che il sangue di Abele, sale al cospetto del Signore come incenso di soave odore per far discendere sulla terra le grazie del Padre dei lumi e delle misericordie».
L’Osservatore Romano 14 settembre 2015

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