mercoledì 17 settembre 2014

PADRE PUGLISI NEL FILM "ALLA LUCE DEL SOLE" DI FAENZA: I RETROSCENA (PARTE PRIMA)




di Francesco Deliziosi

“Signore, tu che scrivi dritto sulle righe storte, mostrami il cammino, non lasciarmi solo”: è con questa preghiera sommessa che don Puglisi-Zingaretti chiede un viatico a Dio per il suo calvario, davanti ai banchi vuoti della chiesa di Brancaccio. “Dritto sulle righe storte” è un proverbio portoghese che affida alla speranza di un progetto provvidenziale anche il male del mondo: è una frase carica di fede, citata anche da Giovanni Paolo II, che padre Pino ripeteva spesso per rincuorare amici e parrocchiani, insieme all’altra, di San Paolo: “Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?”.



Siamo all’inizio di “Alla luce del sole”, un film dolce e violento, bello e terribile – biblicamente - come un esercito schierato a battaglia. In questi anni proiettato tantissime volte in occasione di incontri per fare memoria del parroco-martire. Ecco quindi sul nostro blog un articolo (diviso in due parti) per chiarire curiosità e retroscena della lavorazione (che ho potuto seguire da vicino), ciò che è vero e ciò che è fiction.
Si tratta innanzi tutto di un lavoro che squaderna la brutale oppressione dei boss su un quartiere-simbolo, dove i ragazzi scrivono “W la mafia” sui muri e festeggiano l’uccisione di Falcone. Eppure occorre sottolineare subito che la storia narrata da Roberto Faenza (nella foto con Luca Zingaretti) riesce a tenere vivo un filo di speranza, un barlume di libertà negli occhi dei bambini, un sorriso elettrizzante che passa dal parroco-martire ai suoi giovani, che colora i loro sogni. Soffocata la voce del sacerdote con un colpo di pistola in testa, rimane l’eredità di una passione e di un insegnamento radicale: per difendere i propri ideali occorre mettere in gioco anche la vita. La verità rende liberi, evangelicamente. E la libertà è – come dice uno dei ragazzi nel film – “imparare a pensare tutti con la propria testa”. In terra di mafia gli uomini liberi ora sanno – grazie a quel piccolo prete testardo – che c’è la possibilità di cancellare lo stigma di Cosa Nostra. Gli uomini liberi, e in particolare i giovani, ora sanno che si può vivere “alla luce del sole”, fuori dall’ombra del dominio dei clan. Così, dopo una serie di cambiamenti (ci sono stati molti titoli provvisori e l’ultimo era appunto “Dritto sulle righe storte”), la scelta del regista è caduta su questa espressione luminosa per simboleggiare quel che rimane dell’insegnamento di don Puglisi, nonostante la sua morte.
Per il film Faenza è ripartito da un tema del suo precedente “Prendimi l’anima”: nell’asilo di Sabina Spielrein (paziente e allieva di Jung) i bambini seguivano un’educazione alla libertà, simbolica e destinata a soccombere nella Russia autoritaria di Lenin prima e degli invasori nazisti poi. La forza di don Puglisi è la stessa: scardinare i legami dell’omertà, aprire gli occhi a chi non vuole vedere, mettere – anche qui, alla maniera di Gesù - i figli contro i padri.
La trama ripercorre fedelmente gli avvenimenti di Brancaccio, dai difficili inizi all’acquisto del centro Padre Nostro fino agli attentati e all’omicidio, risolto con una scena di estrema delicatezza. Passando per i rifiuti di don Puglisi: di fronte alle “generose” offerte in denaro dei boss, di fronte alle fastose celebrazioni per il patrono San Gaetano, di fronte a rappresentanti dello Stato corrotti e collusi. Poche le incongruenze storiche, tra cui va segnalato l’arrivo a Brancaccio inaspettato (per Puglisi) delle suore e di Gregorio Porcaro (il suo vice, interpretato da un sornione e simpatico Corrado Fortuna). Nella realtà fu lo stesso parroco a cercare, e a ottenere, “rinforzi” dall’arcivescovo Salvatore Pappalardo (con un riuscito “cameo” ne indossa i panni Sergio Flaccovio).
Ma i veri protagonisti del film sono loro: più di cento bambini – bellissimi e bravissimi - scelti all’Albergheria o in corso dei Mille (tra i sacerdoti di frontiera che più hanno collaborato col regista vanno ricordati Francesco Stabile, Cosimo Scordato, Antonio Garau). Le storie simboliche di riscatto e violenza dei giovani si intrecciano con quella del loro parroco. E molti adolescenti, alla fine, riusciranno a sottrarsi alla gogna della mafia, al dominio del padre-padrone, con la fuga o con altre tragiche scelte.
Faenza, con maestria, si è sottratto a molti rischi. Intanto (grazie anche a una straordinaria interpretazione di Luca Zingaretti, avulsa da ogni retorica) ha rifiutato di dipingere il “santino” di un sacerdote che mantiene sullo schermo tutta la sua popolana concretezza e manualità da figlio di ciabattino. La narrazione è asciutta, la sceneggiatura (firmata, come il soggetto, anche dallo stesso Faenza) senza fronzoli, i dialoghi secchi e scabri.
L’asse portante del suo lavoro è la denuncia civile del terribile destino che incombe sulle nuove generazioni nelle periferie metropolitane, per l’assenza dello Stato e la disattenzione della società. In questo il film è “politico” e lancia un forte allarme a chi governa. Solo la Chiesa, con i suoi uomini migliori e il suo insegnamento di libertà, pare costituire in queste “favelas” una diga di speranza (il lavoro è infatti dedicato “ai bambini di Palermo”).
Faenza, da sempre uomo di sinistra e dichiaratamente ateo, ha colto in don Puglisi l’uomo del dialogo, del sogno, della libertà. E davvero, in vita, fu un sacerdote per nulla “clericale”, alieno da un cristianesimo devozionale e integralista. Fu un prete capace di costruire anche con chi è lontano dalla fede, cercando i “tratti di cammino in comune”, come diceva Giovanni XXIII. Per chi l’ha conosciuto bene, come chi scrive, appare significativo che - anche dopo morto - padre Pino sappia ispirare e parlare al cuore non solo dei credenti ma di tutti gli uomini di buona volontà.
Poi, altra nota di merito: Faenza, attentissimo ai particolari (è citata persino una poesia di “Spoon River” che padre Pino amava) nella lunga fase di documentazione, ha saputo cogliere e raffigurare una realtà misconosciuta, ma ormai sancita dalle sentenze giudiziarie: il delitto Puglisi non è una storia di quartiere che nasce e si conclude a Brancaccio, ma va inserita in un contesto più ampio, quello delle ancora misteriose stragi del ’92-’93. Mandanti ed esecutori sono coinvolti, infatti, anche nelle uccisioni di Falcone e Borsellino, negli attentati di Firenze, Roma e Milano. Puglisi viene eliminato perché attira l’attenzione sul clan, sulle sue basi (i magazzini di via Hazon), sulla cosca che progetta l’assalto (la proposta di trattativa?) allo Stato per conto di Riina e trasporta esplosivo in giro per l’Italia.
Se una critica è lecito muovere al film, infine, l’obiezione è questa: volutamente nell’opera non è stato approfondito il Puglisi-sacerdote, la sua formazione, le radici evangeliche della sua spiritualità. Chi l’ha conosciuto - e io tra questi - non può scacciare la sensazione finale che nel film manchi qualcosa. Anche nei momenti più terribili, sotto la sferza di pestaggi e attentati, Puglisi-Zingaretti rimanda la sua scelta di non indietreggiare a motivazioni limitate e laiche (“se mi tiro indietro, come potrebbe credermi la gente?”). Non viene reso esplicito un fatto fondamentale: don Puglisi non lasciò Brancaccio per non tradire il Vangelo, per non tradire la missione di “buon pastore” che Gesù gli aveva affidato. E in Cristo trovò la forza per resistere alla violenza. Questione non da poco, visto che è stata proprio al centro dell’istruttoria ecclesiale per il riconoscimento del martirio che ha portato alla beatificazione nel 2013. Quella di Brancaccio, secondo la Chiesa, non fu una violenza contro una singola persona ma un omicidio “in odium fidei”, in odio alla fede, e cioè ideato per abbattere la lezione di libertà che Gesù stesso impartiva attraverso le parole di don Puglisi. Anche l’unica preghiera a Dio che scrive “dritto sulle righe storte” è stata aggiunta - questa è una chicca - in una fase di post-produzione (la voce infatti recita fuoricampo), su sollecitazione di uno dei sacerdoti che più ha aiutato Faenza nella sua avventura irta di difficoltà.
Eppure, anche se in questo ritratto dal sapore tutto laico, appaiono comunque chiare la tempra e l’ostinata, ineffabile dolcezza del sacerdote-Puglisi, fino alle sue ultime parole rivolte ai killer, “me l’aspettavo” (chissa perché corretto nel film in “Vi aspettavo” e senza che si veda il sorriso descritto nei verbali dall’assassino, oggi pentito).
D’altronde, a proposito di atei e credenti che lavorano insieme per il riscatto dei popoli, per la giustizia e la verità si può concludere qui con una frase di Simone Weil che era cara a padre Pino: “A Cristo piace che a lui si preferisca la verità. Perché, prima ancora di essere Cristo, egli è anche la Verità. Se ci si allontana da lui per andare incontro alla verità, non si farà molta strada prima di cadere nelle sue braccia”.

(1-continua)

2 commenti:

  1. grande interprete zingaretti chi meglio di lui poteva interpretarlo x nn parlare della somiglianza nel film
    Francesca Castelli

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  2. Grandissimo sacerdote, grandissimo uomo!
    Emma Stasio

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