domenica 31 agosto 2014

LA CHIESA DI FRONTE ALLA MAFIA/2

INTRODUZIONE



Nel luglio del ’79 faceva la sua comparsa il libro-intervista di Leonardo Sciascia “La Sicilia come metafora”. Dopo un quarto di secolo, tante riflessioni e provocazioni del grande scrittore di Racalmuto sono ancora attuali. Possiamo partire da una di queste per dare l’avvio alla nostra meditazione su come, nella storia siciliana, la Chiesa, la società e i poteri (legali e illegali) abbiano intrecciato il loro sviluppo, le loro vicinanze, i loro scontri. In particolar modo cercheremo di mettere a fuoco, attraverso alcuni episodi significativi, come la Chiesa si sia a lungo interrogata sul proprio ruolo a contatto con due delle piaghe dell’Isola, la povertà da un lato, la mafia dall’altro.

Una materia magmatica, che fa parte a maggior titolo della cronaca più che della storia. Ci limiteremo quindi a pochi flashback, scelti per la loro esemplarità, sullo sfondo degli atavici mali – sottosviluppo economico e presenza della criminalità organizzata - che hanno contraddistinto le vicende siciliane e, in qualche modo, ne hanno influenzato anche l’evolversi della spiritualità e la crescita dell’impegno civile nel dopoguerra.
L’autonomia dell’Isola potrebbe essere un vanto nel momento in cui la politica nazionale modifica la Costituzione in senso federalista, col nome esotico di “devolution”, ed estende di fatto il “modello Sicilia” a tutte le regioni. Eppure l’autonomia stessa mostrerà - dopo questo breve excursus storico che faremo - di essere stata, e di essere, anche un rischio e una anomalia. Lo Statuto e il massimo delle garanzie autonomistiche, arrivati dopo la guerra insieme con la Repubblica, sono piovuti infatti su una regione che, culturalmente, era al minimo delle capacità di indipendenza e di autogestione. Un’Isola dove la criminalità si organizzava per plagiare il nuovo Stato e prenderne il posto, infiltrandosi tra i partiti al potere.
Per tornare a Sciascia, ecco la citazione illuminante: “La particolarissima viscosità della storia siciliana la si deve anche al fatto che qui si è sempre sperato in cambiamenti che venivano dal di fuori e dall’alto: ogni volta che un vicerè lasciava Palermo, in tutti i quartieri della città si faceva festa, perché si pensava che il nuovo sarebbe stato migliore del precedente e che avrebbe finalmente apportato “il” cambiamento. Nessuno tuttavia pensava a rovesciare l’istituzione, le  plebi essendo perfettamente avvezze a quest’idea del mutamento che scende dall’alto”.
Tra tutte le genti straniere, quella spagnola aveva in particolar modo colpito Sciascia, che osservava: “Una dominazione imposta, certo, ma ci andava talmente bene da un punto di vista comportamentale ed estetico! Con il loro amore del fasto, della ricchezza e della festa, il loro gusto per la dissipazione e la prodigalità ostentata, la loro tendenza alla grandiosità e alla pompa, gli spagnoli ci misero a nostro agio: eravamo più fastosi ancora di loro. Il termine “spagnolesco” d’altronde è più adatto ai siciliani che non agli spagnoli” (1).
A voler aggiungere un’altra citazione, infine, nel “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa don Fabrizio Salina così apostrofa il suo interlocutore giunto dal Nord: “Credete davvero, caro Chevalley, di essere il primo a cercare di immettere la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti iman, venuti da terre musulmane, quanti cavalieri del Re Ruggero, quanti scrivani degli Svevi, quanti baroni del re d’Angiò, quanti uomini di legge del re cattolicissimo, hanno concepito la stessa nobile follia; e quanti vicerè spagnoli, funzionari riformatori di Carlo III? E chi sa ormai che ne è stato? La Sicilia ha voluto dormire nonostante le loro innovazioni”.
In questo scenario di desolata apatia, dove lo Stato o è nemico o è lontano, si forma l’“humus” fecondo per l’organizzazione segreta chiamata mafia - la vera anomalia siciliana –, quella mafia capace di sostituirsi all’amministrazione legale. E di aderire come un’edera al potere, tanto da ricoprirlo totalmente e assumerne la forma e le funzioni.
Come ha scritto Gabriele De Rosa “la storia della Sicilia, fra tutte le storie regionali, è forse la più difficile per le tante stratificazioni di cultura e di civiltà che la contrassegnano, e resta difficile anche per la storia contemporanea…E’ quasi temerario avvicinarsi ai tempi attuali, come se fossero sommersi da una coltre di nequizie e la storia fosse mossa e governata da una violenza mafiosa attrezzata tecnologicamente, che esce dai confini dall’Isola, non più evento locale, ma internazionale, un morbo come l’Aids, che ha capacità riproduttive indecifrabili…Se è vero che il Concilio Vaticano II consentì ai vescovi siciliani di allargare l’orizzonte della loro pastorale, non si può dire che a livello della società civile, partiti, governo, scuola, università si sia riusciti a liberarsi da antichi veleni, anzi c’è tutta una storia di tenaci, oscure e lontane compromissioni che investe tutta la gamma dei poteri. La mafia non ha trovato l’ambiente né politico, né economico, né civile, capace di combatterla”. E un altro storico, Salvatore Lupo, conclude così la sua “Storia della mafia”, dopo aver analizzato le collusioni tra “uomini d’onore” e politica: negli ultimi anni “Cosa Nostra  si è collegata in maniera assolutamente nuova alla grande politica e ai grandi affari, ovvero alla grande stagione (speriamo conclusa) dello Stato assistenziale e del governo debole, disintegrato fra istituti ad hoc, leggi ad personam, lobby, fazioni, clientele e favori, Usl e regioni, tangenti per tutti, dell’affarismo rampante e dei poteri occulti. Per leggere tale sistema, che è il contesto in cui si è sviluppata la metastasi mafiosa, sarà necessaria una storia d’Italia, non bastando una storia della Sicilia”. (2).
Consapevoli di questa temerarietà della ricerca, ma anche consci dell’importanza delle “metafore” che l’Isola offre con la sua storia - con l’anomalia della sua autonomia - a Roma e all’Italia, i nostri flashback inizieranno dagli anni Sessanta. Esamineremo le due lettere in cui il cardinale Ernesto Ruffini parla della mafia, la prima tanto vituperata, in risposta a una sollecitazione vaticana, e la seconda, pressoché misconosciuta, ma ugualmente di portata storica, in cui per la prima volta la Chiesa siciliana prende posizione. Ci immergeremo poi negli Anni Settanta, cartina al tornasole di un tempo nuovo e del vento del Concilio Vaticano II arrivato anche nell’Isola. Passeremo poi in rassegna i cinque viaggi di Giovanni Paolo II in Sicilia, dall’82 al ’95, cercando di cogliere i suoi acutissimi riferimenti all’animo siciliano e ai suoi mali.  Esamineremo quindi l’omicidio di don Pino Puglisi, il suo movente e i retroscena che lo configurano – a nostro parere - come un esplicito attacco al Papa e alla Chiesa intera. Infine analizzeremo i documenti che la comunità ecclesiale ha prodotto dopo quel delitto e che hanno sancito l’incompatibilità tra la mafia e il Vangelo, cercando anche di delineare il significato della causa per il riconoscimento del martirio del parroco di Brancaccio, conclusa il 25 maggio 2013.

Note

1)    L. Sciascia, La Sicilia come metafora, Milano 1979, 49-50. La citazione del “Gattopardo” si trova poco prima.
2)    La citazione di De Rosa in AA. VV., La Chiesa di Sicilia dal Vaticano I al Vaticano II, Caltanissetta-Roma 1994, Vol. I, Pres. VII e XXV. Quella successiva in S. Lupo, Storia della mafia, Roma 2004. Sempre in tema di anomalie non va dimenticata la Legazia Apostolica, quella particolare forma di asservimento della Chiesa isolana al potere politico al quale è stato dedicato il convegno del ’98 del Centro per lo studio della storia e della cultura di Sicilia. Cfr. il volume degli atti La Legazia Apostolica, Caltanissetta-Roma, 2000.

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